Siamo il primo partito, abbiamo vinto (ma dove?), esulta Zingaretti, mentre il caposardina Santori puntuto precisa che in Toscana e in Puglia sono stati loro a portare la gente in piazza. Certo, gli è andata meglio di come prevedeva, ma l’esultanza sembra spiegata più che dallo scampato pericolo di una rovinosa batosta elettorale dall’aver messo un freno, almeno per il momento, alle mire dell’arrembante Bonaccini.
Goffamente i vertici 5stelle festeggiano la vittoria del Sì, volutamente ignorando il calice amaro di risultati regionali sotto il 10% (trimezzati), ci vuole il Dibba a riportarli alla realtà della più grande sconfitta della storia del M5s. I pentastellati sono destinati a fare la triste fine del maschio della mantide religiosa, basta osservare i giochi sottobanco dei piddini romani per mettere fuori gioco Virginia Raggi. Lega e FdI fan buon viso a cattiva sorte, speravano meglio, ma è pur vero che sono i soli a incassare una nuova regione (Marche), anche se brucia in particolare la sconfitta in Puglia, dove un Emiliano in versione Achille Lauro vince nonostante i crolli dell’industria (Ilva di Taranto, Stanic di Bari, Petrolchimico di Brindisi, Enichem di Manfredonia), della Banca popolare di Bari e della irrisolta questione degli ulivi. Comunque, al di là di ogni fantasiosa ricostruzione, la fotografia della carta politica ci informa che le regioni in mano al centrodestra salgono a quindici, quelle del centrosinistra scendono a cinque.
Per il voto referendario il 70 a 30 è chiaro, non lascia dubbi. I pentastellati provano a intestarsi il risultato referendario, operazione che però cozza con la cocente sconfitta alle regionali. Il popolo del Sì ha votato in questo modo semplicemente perché convinta della bontà del taglio, punto. Probabilmente, questo referendum è il canto del cigno del movimento 5 stelle, d’ora in poi vivranno solo il tormento di una dolorosa guerra intestina e di un confuso sfilacciamento.
Il largo consenso popolare al Sì ci parla non di un antiparlamentarismo rivoluzionario, ma della grande arretratezza politica che individua la causa del malessere sociale non in determinate politiche di sistema ma nel numero eccessivo dei parlamentari. Con il risultato di ulteriormente rallentare il processo di decantazione delle energie politiche capaci di mettere in discussione i capisaldi sistemici della crisi economica e sociale. Perché è evidente che il taglio dei parlamentari non rappresenta nessun passo in avanti, se non nella direzione della crescita della disaffezione verso la politica in generale. Tutto sommato, questo risultato rafforza il ruolo del governo, e dello stesso Conte. Ma, a proposito, chi è questo Conte? Chi lo ha voluto? Che sia gradito a quei livelli eurocratici anti-sovranisti che mirano a perpetuare lo stato di sudditanza della nostra nazione, quegli stessi disposti ad aprire i rubinetti degli euro-finanziamenti solo a condizione di ulteriori atti di sottomissione dovrebbe essere ormai chiaro. Le forze di opposizione, in particolare Lega e FdI, hanno dimostrato di non rappresentare una vera alternativa, hanno accettato la becera logica del taglio, per paura di passare come i difensori della “casta”.
Io ho votato No nella dichiarata intenzione di dare una spallata al governo, ma anche perché alieno a qualsiasi demagogia “anti-casta”. Ma molti di quelli che hanno votato No sono stati avvertiti come i difensori dello status quo, a partire dalla difesa di un parlamento incapace di rivendicare sovranità che avevamo già ampiamente perduto quando il governo Renzi di notte piegò la Costituzione al vergognoso ricatto del pareggio di bilancio. I molti fautori del No non godono di credibilità, la gran parte di questi sono gli stessi che più o meno criticamente sostengono il governo e le sue politiche antipopolari, sono gli stessi che scattano come soldatini all’ennesima chiamata antifascista a copertura ideologica delle proprie schifezze, sono gli stessi che approvano le sanzioni alla Russia. Dov’è la dignità di un parlamento che vota decisioni prese altrove, e in cui tra l’altro si assiste a un continuo cambiamento di casacca? Il referendum avrebbe potuto essere una buona occasione per dare battaglia su questioni di fondo, invece non v’è stata discussione, sostanzialmente per paura di essere considerati come i difensori della “casta”.