Certo, sarebbe più opportuno scrivere di crisi economica con proiezione Pil catastrofica, di occupazione a rischio che a nulla o poco serve una proroga dei licenziamenti, delle inutili e inconcludenti misure assistenziali come quelle dei bonus, della scuola che la crisi da “covid” ha messo definitivamente in ginocchio con un ministro che peggio non si poteva immaginare… ma non è nostra la colpa se un governo in carica per grazia quirinalizia, nato allo scopo dichiarato di impedire all’orco di presiedere palazzo Chigi, sull’onda di un’emergenza che fosse per lui non finirebbe mai, mostra noncuranza se non addirittura noia per i prosaici bisogni materiali delle classi popolari, al che si potrebbe ricorrere ancora una volta all’aneddoto della regina e della brioche.
Oltre a permettere di far entrare chicchessia nel territorio nazionale, con le sorosiane umane Ong a dettare la politica degli ingressi, questo governo vuole a tutti i costi fissare i passaggi parlamentare del ddl Zan, per arrivare a settembre alla legge. Una legge, dicono, per combattere l’omofobia in tutte le sue varie declinazioni. Una legge, dico, figlia di un’inquietante distopia.
I giornali progressisti (“Repubblica”, “Fatto quotidiano” eccetera) tirano la volata al ddl Zan, insistendo sul ricordare che le associazioni Lgbt+ attendono da oltre 20 anni una legge che argini con decisione le discriminazioni e le violenze fondate su sesso e orientamento sessuale. Per costoro si tratta di uno scontro tra due modelli culturali opposti e inconciliabili, dove naturalmente i buoni son quelli «contro le discriminazioni e le violenze» mentre i cattivi quelli dell’associazionismo conservatore e cattolico che teme «derive liberticide».
A questi cultori del progresso a prescindere, del tutto refrattari al dubbio che il progresso in sé non per forza è miglioramento (sociale umano esistenziale), non passa affatto per la testa che possa aversi sì un pensiero moderno, ma non per questo fanatico del progresso “perché siamo nel 2020”; un pensiero contemporaneo quindi, ma critico; un pensiero non subalterno all’ideologia della “liquidità”; un pensiero che nella tradizione non vede il babau da esorcizzare; un pensiero consapevole che «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni», come sapientemente ebbe a dire Marx; un pensiero ancorato alla naturale legge della vita che vede maschio e femmina unirsi per procreare, altro che oniriche e solipsistiche fantasie; un pensiero che disapprova, e quindi fugge, le bizzarrie frutto dell’angoscia esistenziale e conseguente disagio di vivere.
La “Stampa” addirittura parla di «legge su omotransfobia e misoginia». Misoginia? Chi non si inchina alla religione della corporazione gender-Lgbt+ è da ostracizzare, come accade addirittura per molte delle femministe storiche. Vedere il caso della scrittrice J. K. Rowling. Non rinunciando infatti Rowling ad affermare che il sesso sia un dato reale e biologicamente fondato, si trova sotto il tiro incrociato della sistemica corporazione Lgbt+, la quale sta promuovendo il boicottaggio delle sue opere. Addirittura è stato rimosso un poster pubblicitario con la scritta «I love JK Rowling» nella stazione ferroviaria di Edimburgo.
Ma torniamo alla proposta di legge. Come scrive la giornalista Ida Dominijanni su “Internazionale”, «una legge non basta, né a scoraggiare chi la violenza la agisce né a tutelare chi la subisce: ci vuole altro e questo altro, dice da sempre il femminismo che infatti una legge contro la misoginia non l’ha mai chiesta, si chiama pratica politica».
«Pare a me invece» continua Dominijanni, «che oggi, e non da oggi, l’urgenza della soluzione giuridica dei conflitti attinenti al sesso-genere esaurisca l’operato di tutti gli attori in campo: di un parlamento ignaro della complessità della materia, che al meglio ragiona solo in termini di vittimizzazione e di risarcimento penale dei soggetti da tutelare».
La giornalista ricorda come la distinzione fra sesso (come dato biologico) e genere (come costruzione culturale) è una distinzione «netta e basilare nel femminismo anglofono» ma non è così «in quella vasta area del femminismo radicale italiano che lavora piuttosto sulla ri-significazione politica della differenza sessuale».
Il problema, per la giornalista, sta proprio nell’espressione “identità di genere”, «che si riferisce al genere a cui le persone trans sentono di appartenere a prescindere dal sesso di nascita» e «per quanto sia entrata a far parte del linguaggio giuridico internazionale non può non suscitare qualche perplessità quantomeno sul piano concettuale: a me pare che contraddica nell’uso stesso del termine “identità” la fluidità che vorrebbe esprimere».
Per capire quanto sia ingarbugliato e confuso il tema egemonizzato dagli ambienti gender, torna utile andare all’intervista a Giorgio Ponte pubblicata sul giornale in rete di Pro-vita. Ponte è uno scrittore, ma «da omosessuale» dice che «il ddl Zan è profondamente discriminatorio». E già qui si capisce il suo disallineamento con il mondo Lgbt+, di cui il ddl Zan è emanazione.
Ponte non teme di dichiararsi per la difesa della famiglia naturale, quella per intenderci composta da mamma papà e figli. Ponte spesso partecipa a iniziative varie per permettere alle persone omosessuali di vedere la propria condizione in modo diverso da quello proposto dalle lobby. Nell’intervista afferma di vedere nel ddl una certa ambiguità, anche «fosse una legge che punisce gli atti di violenza fisica verso una persona omosessuale, sarebbe comunque discriminatorio perché creerebbe una categoria a parte, quella degli “omosessuali”, che in questo modo godrebbero di diritti supplementari rispetto a quelli di qualsiasi altro cittadino».
«Il fatto che questa legge non definisca il reato, la rende oltre che discriminatoria anche pericolosa, dato che leggi simili in altri paesi hanno impedito la libertà di parola nei confronti di chi ha espresso pareri contrari su diversi temi, anche non direttamente connessi con l’omosessualità (l’utero in affitto, l’educazione di Genere), ma che all’attivismo si accompagnano e che possono essere giudicati “omofobi” a discrezione del giudice».
Ma davvero viviamo in un paese omofobo, gli domanda l’intervistatrice? «L’Italia non è un paese omofobo, e non a detta mia, ma secondo le graduatorie stilate dalle stesse associazioni “gay friendly”». «Ci sono emergenze molto più grandi (…) di quelle che ci sono verso chi manifesta attrazione omosessuale. Anzi, sul piano lavorativo, oggi nonostante non ci sia ancora una legge, è un modo per costruirsi uno scudo di intoccabilità perché basta dire di essere stati licenziati da una persona perché era contraria alla tua tendenza omosessuale, che questo anche senza avere nessuna prova in della questione, ti fa diventare intoccabile. Questa emergenza omofobia, dunque, io sulla mia pelle, non l’ho mai vissuta».